[sottofondo consigliato per la lettura]
"Per quanto tempo ho affondato il viso nella sabbia?
Mi rialzo lentamente e comincio a
definire i contorni delle cose. Una striscia infinita davanti. Chiara e
levigata dalla brezza. C’è anche il mare silenzioso a destra, a pochi
passi; verso sinistra invece, un muro di dune e di tamerici costeggia il
bordo di questa spiaggia. Deve essere abbandonata.
Si sente solo lo scoppiare delicato della
schiuma sul ventre sabbioso. È un silenzio pacifico, ma turbolento.
Pare sospeso, come se l’aria fosse densa come il vetro. Quando invece,
al suo interno, infinite nubi di elettroni ronzano freneticamente
intorno ai loro nuclei. Universi microscopici e sconfinati che tremano
di tensione, o di paura, per una nuova enorme deflagrazione.
Ma s’illudono. In questa spiaggia nulla si muove, se non lo vuole il Vento di terra.
Camminare è un continuo scavalcare questi
resti solitari. Per quale motivo si trovano qui? Sono talmente tanti.
Si direbbe quasi che là sotto, proprio negli abissi, una civiltà
sottomarina si stia evolvendo velocemente.
Credo che sia il caso di correre. Non
ho fretta, ma semplicemente desiderio. E poi con tutti questi relitti
da saltare, con una corsa è molto più semplice. Comincio la mia marcia,
un piede sul tronco, l’altro sulla tavola scolorita, poi di nuovo la
sabbia rovente. Cumuli di conchiglie stridono, sghignazzando al mio
passaggio.
Ogni tanto qualcosa d’improvviso sguscia via da sotto i miei piedi.
Lucertole.
Un tempo erano bestie notturne, gelate
come albori lunari d’inverno; fino a quando una mattina, quasi per caso
non conobbero il Sole.
Adesso, alzano lentamente il muso sottile
e inebriato ogni qualvolta odano il Vento di terra, l’amato soffio
bollente che da lontano inizia a bruciare le cime delle tamerici. Lo
bramano esaltate, in attesa di esserne travolte.
Questi battiti densi mi percuotono la
testa, aumentano. Pare un frullio ovattato d’ossa, sbriciolate e
sfregate, dentro la mano chiusa di un gigante.
Ma aspetta.
C’è qualcosa che brilla laggiù, a
sinistra, sulle radici di quella pianta. Sfolgora immobile, un bianco
accecante, più chiaro di tutte queste bottiglie squagliate. Mi avvicino.
Non posso ignorarlo. Le sue forme allungate, forse…
Sì, è proprio un osso.
Probabilmente di cane, una zampa.
Ma è cavo. Che strano, non ne avevo mai visti di così particolari: talmente candido, come se fosse stato lucidato.
La tentazione è forte e ne porto un’estremità vicino alla bocca.
Con un filo di respiro provo a farlo fischiare.
Eccolo: è acuto. Un gridolino che fa rabbrividire; fila via come fumo dal suo becco affusolato.
Planando nell’aria afosa, lo sento sconquassare le mie vene: fiumi in piena dentro cannucce sottili.
Mi vedo una bestia veloce che solleva
nubi di polvere; e quell’ammasso antico oramai frantumato dal calpestio
eterno del Tempo, si spande nell’aria, lasciando un velo luminoso
proprio dietro il mio passo.
Con un flauto macabro in mano, ogni tanto lo faccio sibilare, a scandire tempi indefiniti su questo battito di ossa.
Forse sono proprio le mie che sfregano.
Le mie costole che sbattono fra loro. E il fischio del flauto si aggrega
contrastando quel suono; sembra quasi richiamare un segnale, un codice
sonoro di una danza funebre.
Le mie gambe non rispondono, sembrano avere una loro coscienza frenetica.
Sono una creatura inarrestabile.
Nastri veloci: d’azzurro, bianco, verde,
scorrono intorno rapidi. Mi accolgono in un baratro di cui non si vede
mai la fine. Forse ho paura. Vorrei fermarmi. Non è più una corsa,
adesso mi pare di cadere.
Attraverso il vento caldo che mi plasma ogni
parte del corpo. Cambia la mia forma. La pelle sembra ribollire. La
caduta è inarrestabile, e io ne sono la vittima. L’insetto dentro le
fauci molli e roventi. Precipito liberamente, i colori si fondono tra
loro in un bianco latteo. Assoluto. Sento i profili appiattirsi, il
corpo regredire e un odore nell’aria comincia a perforarmi le narici.
Qualcosa si avvicina laggiù, anche se sono io che gli vado incontro. E
questo è il suo odore, ne sono sicuro; pungente e legnoso, a tratti
acido. Sempre più intenso, come la mia caduta. Urta sulla pelle
levigata, quel fetore, quasi fosse solido. Entra dentro il corpo,
scarnificandolo. Ormai ci sono quasi. Lo vedo definirsi, anche se le sue
forme sono abbozzate e asimmetriche. Un ombra dai colori spenti.
Eccolo.
Mi si para davanti, improvvisamente.
Tutto si ferma. La spiaggia, il mare e le tamerici sono ancora intorno.
Mondi silenziosi e immobili.
A pochi centimetri dal suo muso posso
percepirne ogni particolare. Questo odore, lo conosco bene.
L’odore di
un morto, arido sotto il sole.
Il delfino decomposto mi aleggia davanti,
con lo sguardo disfatto, il muso storto e schiacciato. La sua carne
cotta mi fissa. È qui per accogliermi. Il guardiano, dal sorriso
pacifico. L’odore antico, diventa anche il mio.
Benvenuto straniero, sulla Spiaggia di nessuno".
Fonte: http://rebeccalenastories.wordpress.com/
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